Il ritratto e i pensieri di uno dei registi più originali della commedia italiana. Dal 29 Ottobre nelle sale con “Ritorno al crimine”: un “action-comedy”, tra il fantasy e il poliziesco

Spesso capita di imbattersi in persone che non avresti mai pensato di conoscere. Spesso sono proprio quelle che ti colpiscono e, direttamente o meno, ti insegnano qualcosa. Succede così, che ti ritrovi a Roma in un tiepido martedì di Ottobre: sveglia presto e tanta curiosità. E permettetemi di dire, anche un po’ di orgoglio nel riuscire a soddisfare, un piccolo desiderio. Orgoglio nel poter liberamente conversare di qualsiasi argomento, senza il giogo di un retaggio o di un vincolo “editoriale”: in estrema sintesi, libertà. Libertà di chiedere e ricevere risposte mai asettiche o fisse; bensì creatrici di ulteriori digressioni, di altri mille punti interrogativi.
Con Massimiliano “Max” Bruno è andata così: disponibilità e gentilezza. E anche un messaggio inviatomi come promemoria, a dimostrazione di quanto siano atipiche in un certo modo, la figura e l’umanità del regista romano. Insomma, se Bruno chiama devi rispondere. Ne varrà sicuramente la pena. Da “Nessuno mi può giudicare” a “Beata ignoranza”, passando per “Viva l’Italia”; nelle vesti di attore in fortunate serie tv come “Boris” e “L’ispettore Coliandro”: da un lato e dall’altro della macchina da presa, Massimiliano Bruno riesce tuttora a stupirci e a farci riflettere.
Ci ritroviamo nel suo appartamento: Max mi ha accolto sorridente come al solito, con Kobe Bryant sulla t-shirt, mascherina alzata e porgendomi il gomito (visti i tempi). Lo ringrazio per avermi concesso il suo tempo, soprattutto di mattina presto. Mi dice che va bene, in quanto si sveglia sempre di buona lena: c’è molto da fare e da lavorare. E soprattutto, c’è un film che scalpita da Marzo scorso per uscire nelle sale: parliamo ovviamente, di “Ritorno al crimine”. Mi sento del tutto impacciato perché è la prima volta che intervisto, di persona, qualcuno. Gli spiego quello che ho in mente: un viaggio attraverso alcuni dei suoi lavori più noti, soffermandomi tra passato e presente. Con lo sguardo teso ad un domani, per tutti noi, difficile da delineare. Una volta fatto questo, accendo il registratore e passo la parola al mio interlocutore.
Questo, è ciò che mi ha detto. Buona lettura!
-Che cosa ti ha spinto ad intraprendere la strada del teatro e del cinema? Da dove è nato tutto e come riesci a rinnovare questa passione, giorno dopo giorno?
Io sono cresciuto nella Roma degli anni ’70 e ’80: una Roma politicizzata dove c’erano i fascisti e i comunisti, i compagni e i camerati. L’impianto culturale te lo dovevi realizzare da solo perché c’era solo la televisione, a proporti qualcosa. Ricordo che c’era un piccolo teatro di quartiere (il Teatro delle Muse) e un paio di cinema che adesso non esistono più. Un giorno il mio professore di storia e filosofia, al liceo, ci incoraggiò ad andare al cinema e a teatro. Andai così all’allora teatro “Giulio Cesare” (adesso è un cinema) dove c’era un attore, si chiamava Bosetti, che proponeva gli spettacoli di Beckett; Shakespeare; i “sei personaggi in cerca di autore”: andai a vedere le pomeridiane. In questo modo mi son fatto un po’ di cultura personale e da qui è nata la passione. Ho pensato fosse un bellissimo lavoro, anche se il mio imprinting familiare era più serio: mio padre era un avvocato e mia madre un insegnante, i miei fratelli sono diventati avvocati o notai. Ci si aspettava un dottore ma io non mi sono laureato e ho dedicato anima e corpo allo studio della scrittura teatrale e cinematografica, la regia e la recitazione. È stato un percorso lungo e faticoso perché io ho incominciato a raccogliere i frutti del mio lavoro verso i 35 anni, ho investito la mia vita in questo. La passione te la rinnovano gli altri, con le loro vite: ci appassioniamo ad una storia perché la si legge sui giornali, perché ce la raccontano. I personaggi di un film devono sempre essere reali e veri; così ti identifichi nella vita degli altri a partire dalla tua: io ho scritto un libro in cui racconto fondamentalmente la mia storia attraverso gli occhi di un altro. La passione si rinnova andando al cinema, al teatro, leggendo libri, parlando con tutti. Io faccio amicizia con persone di vent’anni come con quelle di settanta! Con un signore anziano, in palestra, mi intrattenevo a parlare di politica e parallelamente con un allievo della mia scuola mi intrattengo ad ascoltare le sue problematiche. Sono un uomo empatico e questo aiuta molto, in questo tipo di lavoro.

-Il tuo percorso cinematografico, come regista, parte nel 2011. Dopo diversi anni trascorsi nei teatri, approdi nelle sale italiane con la tua opera prima: “Nessuno mi può giudicare”. Il film è subito un successo (candidato a cinque David di Donatello e vincitore del Nastro d’Argento come Miglior film). Che cosa ha rappresentato per te tutto questo?
È stato un punto di arrivo: di solito i punti di arrivo sono contemporaneamente dei punti di partenza. Il punto di arrivo di quella stella che ho visto cadere a 16 anni, la notte di San Lorenzo; quando espressi il desiderio di diventare regista cinematografico e poi, a 40 anni si è realizzato. Da lì son partiti altri sogni che non dico altrimenti non si avverano. Un sogno molto bello, una commedia che fa molto ridere ma che ha anche una profondità: è difficile che attori vincano per una commedia. Quando Paola ha vinto quel premio (Miglior attrice) dinanzi a tante attrici impegnate in ruoli drammatici è stata una grande realizzazione. Vincere come miglior commedia i Nastri d’argento, i Golden Globe dalla stampa internazionale, è stata una soddisfazione. Però, al di là del riconoscimento dei premi che è relativo, c’è stato un riconoscimento del pubblico (più importante per me). Il riconoscimento di un film che è diventato un piccolo cult, un evergreen che fa sempre tanti ascolti quando viene mandato in onda. Come anche “Notte prima degli esami” (scritto da Massimiliano Bruno insieme a Fausto Brizzi), che è diventato un po’ il portafortuna per chi è alla maturità. È stato il coronamento di un lavoro durato vent’anni: ho iniziato dapprima in parrocchia; nei teatri off romani, poi nei teatri più grandi; ho scritto per trasmissioni, per film di altri; scritto per serie tv. Ho fatto tutte le tappe che secondo me si devono fare; se ci avessi messo dieci anni di meno sarebbe stato meglio! (ride). In un altro paese ci avrei messo di meno ma va bene così, in Italia si arriva spesso un po’ tardi a realizzare certi sogni.
–Dopo “Nessuno mi può giudicare” arriva “Viva l’Italia”: un ritratto spietato, amaro e ironico sulle contraddizioni, le debolezze ed anche le potenzialità di questo nostro Paese. Secondo te cosa succederebbe se domani, un politico influente come Michele Spagnolo (alias Michele Placido nel film), si svegliasse con l’incapacità di mentire e il desiderio di dire “tutta la verità, nient’altro che la verità”? Dovremmo preoccuparci?
Dopo aver realizzato questo film, sono usciti un paio di leader che ricordano molto Michele Spagnolo. Se tu pensi a Trump…gli escono delle cose dalla bocca “come scoregge”: certe volte dice delle cose che un capo di Stato non può dire; delle cose a tratti naziste. La differenza è che Michele, nella sua malattia, diceva la verità sottolineando i fatti reali (quello ruba, mia nuora è una “poco di buono”). I politici come Trump o Kim Jong-un, hanno un pensiero dietro che è distruttivo. In Italia oggi non saprei…magari sarebbe stato più grave se fosse successo negli anni ’70. Se Andreotti, Craxi, Fanfani, avessero detto tutte le malefatte della P2 o i segreti di Ustica. Se avessero parlato di Gladio, della strage di Bologna. Adesso succede ben poco, vi è una tale pochezza di contenuti ed è arrivata una classe politica che non ha studiato per fare il politico. Quindi c’è un po’ di qualunquismo, di uomo qualunque: poi certe volte a questi la verità gli scappa, nel bene e nel male. Ad ogni modo, il periodo peggiore sarebbe stato quello degli anni ‘70-‘80-’90 o se fosse capitato a Berlusconi: sarebbe finito politicamente molto prima.

-Parlando di “Viva l’Italia”, penso a ciò che mi sovviene ogni volta che ho la possibilità di vedere un tuo lavoro: viene data molta importanza all’uomo, puro e semplice. Non mostri nessuna remora a mettere in scena le ansie, le paure e le vigliaccherie; così come la tenacia. Il coraggio di affrontare la vita per te, dove si acquista? Come si accettano i pro e i contro del quotidiano?
Il coraggio di affrontare la vita lo devi prendere da te stesso, dalla tua curiosità. Penso che la vita sia un grande puzzle che tu devi avere il coraggio di non finire mai; io spero che quando morirò, morirò con la curiosità di conoscere qualcosa che non ho fatto in tempo a conoscere. Un puzzle in cui si strutturano immagini che continuano all’infinito: questo me lo ha insegnato l’arte, la mia eredità è quella della commedia italiana. Mi ha insegnato la vita ne “Il sorpasso” (D. Risi), dove Vittorio Gassman dà il passaggio a questo giovane studente: gli fa vedere un tipo di vita ma per colpa della sua arroganza nel guidare, il giovane muore. Mi ha fatto vedere la vigliaccheria e il coraggio prima della morte ne “La grande guerra” (M. Monicelli) con Alberto Sordi. Un film in particolare di Ettore Scola, “C’eravamo tanto amati”, mi ha insegnato quanto sia difficile crescere e quanto, pur di affermarsi, si modificano i propri ideali: appoggiandosi a dei pensieri che non ci appartengono. La malinconia e l’amarezza sta proprio nel fatto che poi, un bel giorno ci si risveglia più grandi, ci si guarda indietro e si capisce di aver tradito se stessi. La vita è bella perché ti permette di sbagliare moltissimo. Sbagliare ti dà la possibilità di affrontare gli errori e riparare ai danni, che è un gran bel modo di vivere alternato al fatto che ogni tanto devi azzeccare qualcosa. Non si può fare tutto bene, però credo che la vita bisogna avere il coraggio di prenderla così com’è. Un mio caro amico mi ha raccontato che lui vede la morte come qualcosa che sta affianco a noi, come una persona a cui far vedere quanto valga la pena vivere. E quindi non la vive come un nemico; quando non avrà più niente da far vedere comincerà questo “amico” a fargli vedere i motivi per cui vale la pena morire.
–Agganciandomi al coraggio, ne “Gli ultimi saranno gli ultimi”, ci hai donato una splendida Paola Cortellesi nei panni di una donna audace e lottatrice. Una donna che non si piega dinanzi a niente e a nessuno; disposta a qualsiasi azione pur di salvaguardare la propria dignità e il proprio futuro. Cosa pensi si possa fare oggi in Italia, per restituire dignità ai lavoratori? Il ruolo di una donna come quella dipinta nel tuo film, come può essere rivendicato e difeso?
Son due argomenti diversi: i lavoratori stanno attraversando un momento difficile perché la tecnologia e l’avanzamento dell’essere umano ci insegnano che i tipi di lavori cambiano; non esiste più il maniscalco ma il programmatore di pc. Il tipo di cultura che c’è nel mondo mi suggerisce che bisognerebbe insegnare ai ragazzi, fin da piccoli, ad essere autosufficienti, combattivi e competitivi nel mondo del lavoro. Se uno ne sa molto di una determinata materia certamente troverà lavoro, il problema è che: per mille persone che ci sono per cento posti di lavoro, la giustizia sociale ti dice che passano i 100 migliori, diciamo 99 perché c’è sempre qualcuno aiutato. Un mondo molto competitivo, nell’ordine delle cose e del capitalismo: chi funziona va avanti, altrimenti rimane al palo. È spietata la vita e poco assistenzialista per quanto riguarda il mondo del lavoro. Il discorso della donna è differente: tartassata dalla cultura degli ultimi tremila anni, dalle religioni. Nessuna religione conferisce alla donna una dignità pari all’uomo e la religione in questi anni ha fatto cultura: compresa quella nel nostro Paese. Si parte dalla distruzione della sessualità femminile: Gesù Cristo, purtroppo, non nasce da un rapporto sessuale ma per opera dello Spirito Santo. Questo è un messaggio terribile: le donne non sono mucche e gli uomini non sono animali. No, l’animale non può scegliere ha solo l’istinto: noi possiamo scegliere se uccidere o meno, se mangiare il panino cancerogeno oppure no.

La religione alla donna non ha dato scelta, per colpa delle religioni vediamo donne costrette a stare in casa, a cucinare; altre costrette a mettersi un velo in faccia ed altre ancora che devono piegarsi a meccanismi come l’infibulazione, perché è peccato provare piacere. Un impianto culturale che se ci ha messo tremila anni ad attecchire, bisogna iniziare a destrutturarlo in modo che tra duemila anni la donna non abbia tutti sti problemi. Di conseguenza tutto quello che succede è a catena: ecco perché sono meno pagate sul lavoro o un uomo che guadagna meno della moglie va in crisi. Ma non siamo più scimmioni: ci siamo evoluti, abbiamo un cervello. Questo è quello che spero avvenga in futuro sia per le donne che per gli uomini: le prime, perché potranno avere finalmente la libertà di essere diverse ma uguali. Diverse nell’accezione fisica di uomo e donna e uguali perché avranno davvero pari diritti. E l’uomo perché smetterebbe di avere questo pensiero annullante nei confronti delle donne, che crea frustrazione. La donna per me è l’immagine a cui tendere, l’uomo ha un immagine femminile che non riesce a raggiungere se in quell’ immagine c’è la religione. Per me l’immagine migliore di una donna è una puttana: la puttana è un’immagine migliore della suora: sceglierei tutta la vita una puttana invece che una suora. Traslato, vuol dire una donna che vive la propria sessualità, che se si rompe i coglioni di star con un uomo gli dice addio. Rispetto ad una donna che è una brava ragazza di famiglia; che sta a casa e cucina; che si fa i fatti suoi…che palle. Con il risultato che l’uomo cede al tradimento e nessuno dei due è felice. Meglio una coppia felicemente divorziata che una coppia che rimane insieme senza volersi. Quindi anche la convenzione del “fare i figli”, di sistemarsi: io non ci sto. Ad un figlio devi sapere cosa dire, cosa insegnare. In giro è pieno di stronzetti figli di stronzoni (sia maschi che femmine): meglio non fare figli che fare figli matti. Purtroppo de stronzi che si accoppiano è pieno.
Penso al caso del povero Willy Duarte: sicuramente gli assassini erano stronzetti figli di stronzoni…
Beh abbiamo visto, il padre e il fratello sono andati a dire che non fa nulla perché tanto va bene ammazzare di botte un negro: non può essere un reato. Ecco, tu padre hai un figlio che è uscito così gelido perché i genitori erano gelidi: alcuni riescono a reagire, altri no. Non è il caso di quei due imbecilli. Siamo circondati da queste persone che purtroppo si tatuano sulla pancia “famiglia… se un familiare è uno stronzo diventa un nemico. La famiglia e il sangue sono concetti atavici, sangue del mio sangue un cazzo…chi conosco da sei mesi può essere più amico di un genitore o fratello che si comporta male. Chi si comporta in determinati modi va allontanato anche se porta il tuo stesso cognome. È gente che ha un pensiero distruttivo: loro hanno sposato una mentalità e un pensiero freddo. La responsabilità è di quei ragazzi e basta: anaffettivi che non hanno sentito nemmeno il bisogno di fermarsi, perché gli saltavano addosso.
Il frutto di una disaffezione sociale dunque. Viviamo nell’epoca della frivolezza insita nei rapporti interpersonali: la società liquida teorizzata da Bauman, è qui. Penso alla coppia massacrata a Lecce o ai “no mask” e “no vax” vari, che non hanno un vero interesse collettivo.
A tutto questo viene data una grossa attenzione mediatica: 200 anni fa se fosse successo un fatto analogo a quello accaduto al povero Willy, non si sarebbe saputo. È conseguenza di una cultura, del sopraffare l’altro…ti insegnano quello. In tempo di guerra i soldati di qualsiasi nazione entrando in uno Stato, stupravano le donne. Vuol dire che tu dentro hai, come diceva Buffon, una pattumiera.
-In relazione al messaggio che lanci attraverso le tue opere, il fulcro di questa nostra intervista vuole essere proprio il cinema. Inteso come luogo e mezzo per infondere speranza, rivoluzionare e appassionare: almeno per come lo intendo io. Adesso si risveglia a passi timidi ma l’emergenza sanitaria e il lockdown ci ha lasciato orfani, per un po’, di questo mezzo. Tuttavia, la crisi del cinema ha radici profonde: cosa pensi del fatto che chi lavora nel mondo dello spettacolo, si ritrova senza “istruzioni”? Ritieni che il cinema, cosi inteso ad inizio domanda, sia un’emergenza sociale prima che sanitaria?
Credo che il problema, come hai detto tu nella domanda, proviene da lontano. Nel momento in cui ha preso piede più il cinema di intrattenimento che quello d’ autore. C’è stata un’inversione di tendenza negli anni Novanta che comincia a segnalare una crisi reale: se un film fa ridere oppure è un filmone americano pieno di effetti speciali (come quelli sui supereroi), funziona e incassa. Mediamente invece se un film è introspettivo e ti fa fare delle domande e quindi prova a metterti in discussione, non incassa. Vi è un’avversione generale nei confronti dell’arte: l’arte viene mistificata e annacquata con qualcosa che ha a che fare molto con la televisione. Lo schermo, con i talent ad esempio, ha portato alla ribalta l’uomo qualunque, l’uomo senza qualità. Che non sa fare nulla ma che però è diventato divo: l’ immagine diventa ammirata, si hanno i fans eccetera. Una volta l’arte e il cinema, non a caso i registi venivano chiamati maestri, erano un modo per imparare qualcosa sia dell’animo umano che della cultura generale: sia che raccontassero la storia di un uomo o di una donna forti, sia che parlassero dello sviluppo culturale del Paese. Il Neorealismo ha raccontato l’Italia del dopoguerra meglio di un libro di storia: “Sciuscià” o “Ladri di bicicletta” (V. De Sica) sono meglio di un libro. Lo stesso vale per l’America, con i film sulla guerra del Vietnam: “Platoon” (O. Stone) o “Apocalypse now” (F.F. Coppola); ne potrei citare tantissimi. “The help” (T. Taylor) ti serve a comprendere che cosa era la segregazione negli Stati Uniti degli anni ‘50-‘60.

Il cinema aveva ed ha ancora questo compito: comprendere l’animo umano, accrescendolo anche. Quindi non è cambiato il cinema è cambiato il pubblico: il pubblico del 2020 è diverso da quello che ci poteva essere fino a 15/20 anni fa. L’istruzione scolastica è insufficiente rispetto a quella che c’era venti anni fa, prova ne è che i ragazzi escono da scuola senza avere delle conoscenze storiche e geografiche. Come fai a comprendere il mondo se non hai in mente una cartina geografica dello stesso? Come fai a capire quanto è urgente un problema se non capisci che la Libia è ad un’ora di aereo da Roma? Maggiore cultura c’è, secondo me, più armi hanno le persone per dire i propri no rispetto a delle scelte sbagliate di una lobby di potere. Mi chiedo ciò, a volte, rispetto al problema della plastica: non hanno capito che tra 150 anni crolla il pianeta? Che quell’isola di plastica che sta nel Pacifico, tra poco sarà una cosa che ti farà attraversare l’oceano, dal Portogallo fino a New York? Eppure continuiamo a bere nelle bottiglie di plastica. È come se chi governa il mondo, pensasse che siamo dei grandi peccatori e che quindi prima o poi dobbiamo morire. E siccome siamo anche vigliacchi, invece di spararci un colpo di pistola ci ammazziamo da soli, uccidendo il pianeta. Un modo di ragionare che abbiamo visto anche in occasione di questa pandemia.
–Avendo avuto la possibilità di conoscerti, ho potuto assodare quanto il tuo modo di relazionarti al prossimo in modo fraterno e cordiale condizioni in qualche modo il tuo lavoro. Un approccio comico e sincero. Chiunque segua i tuoi profili social oppure veda una tua intervista, capisce subito la consistenza di questo fatto. Hai dei bellissimi rapporti con quasi tutti gli addetti del settore (attori, attrici, registi e non). Tutto questo è un pregio o un difetto? Cosa odi e cosa ami?
Nel bene e nel male, essere sinceri e provare ad essere collaborativi ti espone ad una reazione. Ovvio che se io dico che va tutto bene, ho buoni rapporti con tutti. Se magari mi permetto di sollevare qualche critica, perché c’è qualcosa che non mi torna, è ovvio che ci sarà una situazione diversa. Il mio è un carattere gioviale: sono una persona che cerca di dare fiducia. Una persona che quando presta dei soldi pensa che te li restituiranno e invece non è mai successo. Infatti quando me li chiedono decido se darli o meno: ma penso semplicemente che li sto regalando. Questo carattere ha fatto in modo che me lo mettessero nel…., ma io capisco sempre quando questo avviene. Cerco di capire se mi conviene perché spesso si può avere un tornaconto (il gioco vale la candela): 9 volte su 10 faccio finta di niente, le volte in cui non mi conviene mi batto per imporre il mio volere. Ad esempio in occasione di “Non ci resta che il crimine”, pur di farlo più velocemente possibile, mi hanno proposto un cast che secondo me avrebbe decretato l’insuccesso del film. Quindi ho detto no, chiedendo gli attori che volevo. Per questo sono stato fermo un anno; ma poi l’ho fatto.
–Il lockdown ha travolto anche il tuo nuovo film, “Ritorno al crimine”. L’uscita era prevista per il 12 Marzo scorso e dopo tanta attesa, debutterà nei cinema il 29 ottobre. Quanto è stata pesante questa attesa per te? Che cosa ci aspetta con questo nuovo capitolo?

All’inizio non tanto: adesso però, dopo otto mesi che doveva uscire e non è uscito, ho la smania. Preferisco che esca il film, pur sapendo che c’è la prospettiva di incassare un quinto di quello che poteva fare. Il film aveva un tiro per poter fare 6 milioni, adesso l’obiettivo è farne uno/ uno e mezzo. Perché nonostante i cinema siano controllati (temperature, distanziamento etc.), il pubblico non ci va. Il cinema è cento volte più sicuro di un ristorante o di un bar, eppure questi sono pieni. E’ un discorso culturale: se la gente ha 30 euro preferisce prendere supplì e coca cola, invece che andarsi a vedere un’ opera d’arte. Il cinema non è cancerogeno rispetto a quello che spesso mangiamo. Io quest’anno ho visto tutti i film usciti nelle sale: quelli presentati al Festival di Venezia, “Tenet” (C. Nolan). Le persone mediamente non hanno un pensiero positivo sulla cultura, non scatta il sillogismo: “se conosco meglio e ho cultura, me fregano de meno”. Sta cosa no! Non ce l’hanno, perché appena hanno due lire scatta la ricarica telefonica rispetto ad un’altra stronzata, come può essere un’app. Siamo tutti rincoglioniti sul cellulare mentre nel frattempo chi ci manipola, studia. Sta a noi decidere.
“Ritorno al crimine” è il secondo capitolo della saga de “Non ci resta che il crimine”. Anche qui c’è un viaggio nel tempo: nel primo film i nemici erano quelli della Banda della Magliana, adesso sono i camorristi. Il film è ambientato a Napoli: vi è sia la camorra degli anni ’80, di Raffaele Cutolo; sia la camorra di “Gomorra”, dei giorni nostri. Renatino (interpretato da Edoardo Leo) stavolta ha attraversato il buco spazio-temporale, ritrovandosi nel presente e appurando che è una follia. Si chiede “come cazzo siete diventati”: il sushi, i cellulari, Instagram, internet. È un mondo che non gli piace e cerca di adeguarsi. Secondo me è molto più avvincente e divertente rispetto al primo: un action-comedy ma anche fantasy. È un po’ un “Ritorno al futuro” mescolato con un poliziesco italiano anni ’80. Quest’anno oltre a Marco Giallini, Alessandro Gassman, Gianmarco Tognazzi, Edoardo Leo e me, ci sono in squadra: Carlo Buccirosso, Giulia Bevilacqua e Loretta Goggi. Ci sono anche Antonio Gargiulo, Marco Esposito e Marianna Dimaso, che sono tre allievi bravissimi del mio Laboratorio di arti sceniche. Insomma è stato molto divertente girarlo e non vedo l’ora che esca sia al cinema che in televisione. Credo che il film uscirà dai primi di Febbraio su Sky Primafila, per poi approdare in primavera direttamente su Sky: il fatto è che in tv lo vedono più persone che al cinema. Il percorso dei film è molto cambiato rispetto ad anni fa: vi è il pubblico del cinema, quello delle piattaforme, e il grande pubblico di Rai Uno (nel mio caso perché faccio film in collaborazione con Rai Cinema). Il 3 novembre, infatti, è prevista una messa in onda in prima visione di “Non ci resta che il crimine”, su Rai Uno. Sarà un mese in cui mi vedrò molto sia al cinema che in televisione. Sono molto fiducioso: io ascolto ancora i vinili; il cinema un giorno diventerà qualcosa di più elitario. I film usciranno per pochi giorni come evento e poi in tv, come già è stato fatto. Non lo so…di sicuro a qualcosa bisogna pensare per fronteggiare il calo del pubblico con il Covid. Bisogna capire se il “dopo Covid” decreterà la fine di alcune sale cinematografiche o se tutto riprenderà come gli anni precedenti. Fino a Febbraio la stagione stava andando bene, è un peccato. Io ho voglia di andare al cinema!
–Da diversi anni, esiste una gran bella realtà a Roma: la tua scuola. Il “Laboratorio di Arti sceniche di Massimiliano Bruno”, dove si tengono corsi di recitazione, sceneggiatura, recitazione e regia, per chiunque voglia anche solo avvicinarsi a questi temi. Vi sono soprattutto giovani: che cosa ti trasmettono i loro sforzi per tramutare in carriera, una passione? Ti fanno ben sperare per il nostro domani “culturale”?
Io li amo molto, devo dire che sono particolarmente fortunato. Quando arrivano questi ragazzi, la prima cosa che diciamo è che non è una scuola con cui entrerete nel mondo dello spettacolo. Tra tutti gli allievi uno ce la farà; trenta/quaranta tra le varie classi faticheranno tutta la vita e la maggior parte faranno altri lavori. Perché non c’è lavoro: su 60 mila persone che dicono di fare gli attori, i posti sono 2/3 mila. Quindi, innanzitutto non illudere gli allievi e insegnarli che i migliori ce la fanno: bisogna cercare di essere il migliore. Devo saper muovermi in scena, essere bello o brutto quando mi viene richiesto, devo saper parlare il dialetto altoatesino, romano e siciliano. Affrontare qualsiasi problematica, perché nell’occasione in cui il regista ti chiede qualcosa devi essere in grado di tirare fuori dal cilindro il personaggio giusto. Come il medico chirurgo prima di operare un malleolo rotto deve fare anni e anni di studio e specializzazione, lo stesso deve fare l’attore. L’attore diviene tale dopo i 30 anni, prima è istintivo: non si può pretendere a vent’anni di essere pronto. Molti hanno fretta perché vedono i film con giovani attori e vorrebbero essere al loro posto. Ma che fine hanno fatto la maggior parte degli attori nati con film in cui recitavano da adolescenti? Quanti di loro sono diventati grandi? L’uno o il due per cento, gli altri hanno smesso. Se becchi un film a 22 anni non fai la svolta; fai la svolta se andando a fare il provino sei più bravo dell’altro. Bisogna studiare e studiare tanto.

Uno con la mia fisicità non può fare certo Raoul Bova; bisogna essere sinceri con i ragazzi. Io ho fatto sempre il caratterista, l’amico simpatico eccetera. In Italia e nel mondo il ruolo da protagonisti è per uomini e donne con una certa fisicità, tranne nei casi di comici o comiche oppure attori che hanno “illuminato” un regista. Silvio Orlando, ad esempio, scelto da Nanni Moretti come suo alter ego: in questo modo, il regista ha regalato ad un uomo con una fisicità da caratterista, una carriera da protagonista. Ma non è la norma. Non si tratta di bellezza ma di avere una caratura da protagonista; riuscire ad aumentare il carisma, saper fare quel lavoro. Toni Servillo a vent’anni non è quello di sessanta: premesso che è un uomo che è arrivato al cinema tardi, come Marco Giallini e tanti altri. Con Giallini ho lavorato quando era ragazzo, e non aveva l’esperienza che ha adesso. La bellezza di questo lavoro è che man mano che cresci migliori, se studi. Studiare, per un attore, è soprattutto farlo con se stesso. In Accademia la maggior parte del lavoro lo si fa a casa, con il tuo monologo da imparare davanti allo specchio. A scuola ti danno le nozioni e se le segui, arrivi a trent’anni che di sicuro non sarai una pippa.
Cosa vorresti vedere nel domani? Quali sono i tuoi progetti? Cambieresti qualcosa del tuo percorso oppure, come diceva Fabrizio De Andrè, “meglio trecentomila rimorsi e nessun rimpianto”?
Non mi va di dire che il futuro lo vedo nero. Non voglio essere il classico cinquantenne che parla male delle nuove generazioni: perché come in tutte le generazioni, anche in queste ci sono i geni e le teste di cazzo come c’erano negli anni ‘80 e ‘90. Quindi spero che i ragazzi facciano tesoro del patrimonio culturale che questo pianeta porta in sé; che sappiano leggere tra le righe dei libri di testo che studiano; che sappiano capire la differenza, andare alle radici per capire chi scrive cosa, in quest’epoca di fake news. Una cosa scritta non vale in assoluto: bisogna evitare di essere manipolati. Altrimenti ci ritroviamo tra dieci anni, sui libri di storia, che i fascisti erano dei benefattori e Hitler, un comico tedesco. La nostra cultura proviene dalla cultura di chi ce la tramanda, bisogna quindi essere molto severi e controllare chi la tramanda. Detto questo, il futuro è nelle nostre mani. Abbiamo tutte le carte in regola per fermare le problematiche climatiche e il declino della cultura, siamo in tempo per fare tutto: io penso che l’istinto di sopravvivenza dell’uomo possa fare la differenza. Io vedo un futuro mio in cui continuare a fare cinema e teatro, se la salute me lo permetterà. E vorrei far fiorire il Laboratorio di arti sceniche perché mi piacerebbe che diventasse una società: un punto di riferimento per i giovani. E quindi riuscire ad avere dei fondi per produrre i loro corti, i loro film e spettacoli teatrali; ho questo piccolo sogno. Non lo so, sulla frase di De Andrè: io non sono stato molto spietato con me stesso, anche se avrei dovuto esserlo di più. Ho fatto delle scelte nella mia vita personale e lavorativa, di cui la metà non rifarei. Se tornassi indietro cancellerei da Wikipedia (ringrazio tra l’altro chi mi ha creato la pagina, che non so chi sia, in cui ci sono alcune imprecisioni che correggerò), alcune cose. Certe volte le ho fatte perché avevo bisogno di lavorare, non sapendo come arrivare a fine mese all’inizio della mia carriera. Purtroppo questa è l’epoca in cui se tu fai qualcosa a venticinque anni, poi rimane per sempre; rimangono le immagini, quello che hai scritto. Ogni tanto vedo “Techetechete” e penso: “questa cazzata l’ho scritta io, menomale che non lo sa nessuno”. Sono un po’ severo con me stesso in questo momento: rifarei le cose migliori che ho fatto. Nella prossima vita vorrei avere la lucidità di dire più no: non ne ho detti a sufficienza. Magari d’ora in poi sarà diverso, adesso ho capito che devo dire i no per tutelarmi di più.
Finiamo così la nostra chiacchierata. Giusto in tempo per conciliare il nostro saluto con l’arrivo dello sceneggiatore: la giornata di Max continua. È stato tagliato molto di ciò che mi è stato raccontato, per motivi stilistici. Posso tuttavia assicurare che quanto riportato in questo articolo è fedele al nocciolo di ogni questione trattata. Quello che resta, alla fine, è la schiettezza e la trasparenza di un animo gentile e aperto; e resta anche il tempo per un’ultima considerazione sul lavoro di Massimiliano Bruno. Spesso i suoi film sono micce lanciate in aria con l’intento di svegliarci dal torpore che nasce da ciò che non vogliamo o non riusciamo a vedere, nelle nostre vite. Non hanno la pretesa di insegnarci nulla ma ci descrivono non di rado, al posto nostro. Così, tra un sorriso e una lacrima.
Buon ritorno al cinema!
di Raffaele Felline